Sulla fratellanza.

Si dice, a ragione, che è la comunità ad educare, lo si dice ancora più frequentemente in questi giorni in cui la cronaca riporta gravi atti di violenza compiuti da adolescenti e pre-adolescenti.

È vero che è la comunità ad educare, ma se nessuno si prende in carico l’educazione della comunità stessa (intesa come insieme degli adulti appartenenti ad un determinato territorio), allora essa educherà a suo modo, senza una linea precisa, secondo le “mode” del momento, l’educazione sarà frutto del sentire dei singoli, sarà la somma di quello che a ciascuno in buona fede sembrerà corretto fare o non fare.
È evidente il limite di questo modello individualista, perfettamente rispettoso della privacy, ma disgregante, cioè capace di frammentare in infiniti e non sempre proficui percorsi l’azione educativa posta in essere dal mondo adulto. Si tratta di un modello in grado di mettere in pericolo l’idea stessa di comunità perché: se io basto a me stesso, a cosa mi serve la comunità?

A ben vedere anche il concetto stesso di comunità è forse superato, le metropoli, i grandi centri urbani e le periferie con i palazzi mi pare dicano questo, similmente i paesi senza piazze, o in cui le piazze si sono svuotate, a vantaggio dei grandi centri commerciali, che assurgono a nuovi spazi sociali.
Presumibilmente il concetto di comunità è morto, o comunque non gode di buona salute, forse dovremmo puntare sull’idea di fraternità o di fratellanza.

Il vuoto educativo lasciato dal venire meno della comunità potrebbe essere riempito da questa nuova fratellanza.  Si tratta in primis di riscoprire i legami, scalfire il muro ipocrita della privacy che ci divide e conoscerci.
Potremmo lasciare questa azione alla volontà dei singoli, ma credo non andremmo lontano. È necessario che si intervenga con un disegno preciso che forzi e solleciti lo scambio, la relazione fra i cittadini. Un disegno che aiuti a creare buoni rapporti di vicinato. Negli anni ’50 del secolo scorso Giorgio La Pira chiese che nei quartieri della nuova Firenze si organizzassero feste, per creare legami. Eravamo in un periodo, quello post bellico, di profonde lacerazioni, ma forse quella lacerazioni, sotto altre forme, sono riemerse in questo nostro tempo. Quindi ben vengano le feste, le tavolate per strada, i giochi insieme, il ballo, il teatro e la lettura, la musica e la poesia nella strada appena sotto casa. Oggi c’è un posto per ciascuna di queste nobili attività, ma questo posto è lontano dai vissuti dei più. Spesso i teatri sono vuoti e se non lo sono aggregano in modo omogeneo e non eterogeneo le persone, questo è un grande limite. Riscoprire lo stare insieme, condividere idee ed esperienze. Tutto questo significa ampliare il proprio bagaglio culturale, acquisire punti di vista e capacità da spendere verso le nuove generazioni.

Questo un primo passo, vedo poi necessario investire nella genitorialità, non si è genitori perché si è in grado di generare vita dal punto di vista biologico, si è genitori perché si è capaci di custodire ed educare (far crescere sotto ogni punto di vista) un essere umano. Qui chiamo in casa la Scuola e forse anche la Chiesa (in Italia essa ha ancora un discreto ruolo educativo), è necessaria un’alleanza concreta, non vaga ed astratta. Non si avvia un figlio sul percorso educativo, si incammina un’intera famiglia. Questo significa che in qualche modo - tutto da inventare - fra i banchi non siederanno più solo i bambini, ma anche i genitori. È impegnativo, è difficile, ma credo sia investimento necessario per guardare positivamente al futuro, che sarà il tempo abitato dai nostri figli.

Un genitore mazzanese.

Mazzano, 19 gennaio 2018.

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